Simone Locarni Project / Artist in residence

Un affascinante dialogo tra jazz e musica classica.

Il progetto di Simone Locarni, artista residente di questa edizione, si basa su un’idea del Festival che viene riproposta da alcuni anni: invitare nuovamente un artista che ha già lasciato il segno in passato. Questo approccio è ancora più significativo quando si tratta di giovani talenti e, come in questo caso, provenienti dal Lago Maggiore, territorio che vanta un talento così ricco di prospettive per il futuro come quello di Locarni.
Il Festival offre così una seconda opportunità a questi artisti di esprimere appieno il proprio talento. Il palco diventa il luogo ideale per un progetto di ampio respiro, che mette in luce tutte le potenzialità di questo giovane musicista nel panorama del jazz.

A Simone è stata concessa completa libertà creativa e gli è stato chiesto di variare al massimo le proposte nei tre concerti programmati per il 23, 25 e 26 luglio. Oltre a presentarsi la prima sera di concerto in quintetto con altri acclamati artisti tra cui Javier Girotto e la seconda sera invitare un grande nome come Richard Galliano, Locarni presenta per l’ultimo dei tre appuntamenti da lui firmati anche una sua composizione originale: Suite for a Lake. Questa composizione è una dedica alla sua terra d’origine e ognuno dei quattro movimenti è dedicato a un paese che si affaccia sul Lago Maggiore.

Suite for a Lake
Simone Locarni

Angera
Ho sempre viaggiato molto in treno, sin dai miei primi anni in Conservatorio a Novara fino ad oggi, e per molto tempo la mia vita sia professionale che di studi ha gravitato su Milano. Di quegli innumerevoli viaggi in treno, i momenti che ricordo con più emozione sono i viaggi di mattina, quando il sole non è ancora sorto, il lago dal finestrino appare e scompare nelle gallerie, sembra assonnato pure lui, ricoperto di nebbia o nascosto dal sole che è apparso soltanto sull’altra sponda, quella lombarda. E di quella sponda che vede sempre il sole prima della nostra mi ha sempre colpito la Rocca di Angera, che ho visto svettare tante volte inondata dalla luce calda del mattino, con attorno un mondo ancora semioscuro e in dormiveglia. Ho visto aprirsi tante mie giornate importanti in questo modo, e mi è parso naturale aprire questa Suite dedicata al lago proprio con un richiamo ad Angera, che per tanti tanti viaggi è stata per me sinonimo di alba e di inizio.

Cannero
Se per diversi anni il mio Lago Maggiore è stato quello da Verbania in giù, fino ad Arona, quel lago che si allontana pian piano dalle montagne fino a raggiungere la pianura che mi portava verso Novara e Milano, negli ultimi due è diventato sempre più quello verso Nord, il lago che porta verso la Svizzera, che ogni settimana mi porta verso Bellinzona dove insegno da settembre a giugno. Durante questi viaggi incontro molti paesi meravigliosi ed evocativi, da Intra a Ghiffa, da Oggebbio a Cannobio, ma Cannero mi ha sempre colpito in maniera speciale. E mi colpisce soprattutto d’inverno, alla mattina quando la vedo arrivare come un’oasi, finalmente un’apertura dopo chilometri di strada addossati tra costa e montagna, così come la sera, addormentata ma sempre nobile e maestosa a presidiare silenziosamente il proprio tratto di lago. Come accade anche in Stresa/Isole, in questa suite ho cercato di evidenziare tutto ciò che è nel lago differenziandolo anche livello strutturale e musicale da ciò che è sul lago; in questo caso la melodia che emerge verso la metà del brano rappresenta i Castelli, che ho voluto rendere come una sorta di appendice, qualcosa che fa parte del brano ma che allo stesso tempo si differenzia, come una deviazione.

Falsopiano
Falsopiano è l’unico movimento della Suite che non fa direttamente riferimento a un luogo, proprio perché funge da raccordo e da omaggio a più luoghi. Rappresenta innanzitutto uno dei due richiami a Montorfano, la montagna del mio paese, Mergozzo: falsopiano è appunto quello che si percorre per arrivare da Mergozzo al paese di Montorfano, senz’altro il sentiero che ho percorso più volte nella mia vita e che da qualche anno è diventato per me quasi una cura, un percorso in cui mi rifugio nei pomeriggi assolati quando voglio allontanarmi per un’oretta da tutto e da tutti, e dal cui belvedere si vede tutto il Maggiore fino alla Svizzera. È anche un omaggio a tutte le montagne e ai loro sentieri e percorsi che si snodano nelle vicinanze del lago, montagne che vengono spesso dipinte in un dualismo ma che io ho sempre visto come complementari al lago, quasi come un’altra faccia, un altro sguardo.

Meina
È difficile individuare una frontiera, un punto preciso in cui si percepisce il distacco dal lago; per alcuni vale il semplice distacco geografico, individuabile quindi con Sesto Calende o Dormelletto, per altri invece l’influsso del lago è un qualcosa che si irradia oltre i limiti geografici, anche fino alle alture del Vergante o dell’alto Verbano. Per me personalmente la frontiera è sempre coincisa con Meina, con quel cartello autostradale che nei lunghi viaggi di ritorno sin da bambino mi sussurra “siamo a casa”. È il movimento della suite più jazz, se vogliamo più canonico, e vuole richiamare tutto quel misto di emozioni che accompagna ogni viaggio, nella partenza come nel ritorno. Anche i colori sono molto più caldi e mediterranei rispetto agli altri movimenti, dal momento che per chi viene dalla nostra sponda del lago ogni grande viaggio verso sud passa inevitabilmente per quel cartello.

Stresa/Isole
Il cuore della suite non può che essere dedicato al luogo nel quale ci troviamo, ovvero Stresa, e al suo ideale prolungamento nel lago, le Isole. Rifacendomi all’equilibrio formale di cui si faceva cenno nel Quartetto di Shostakovich e in Cannero, ho voluto qui ancor di più segnare un passaggio graduale e allo stesso tempo netto tra i due luoghi fisici e musicali, un passaggio dolce e cullante come quello delle barche e dei traghetti che portano alle isole, ma capace poi di sfociare in maniera decisa in un nuovo paesaggio, un nuovo punto di vista come quello inedito e “ribaltato” di cui godiamo quando passeggiamo per l’Isola Bella o l’Isola dei Pescatori guardando Stresa. E quale modo migliore di rendere questo scavalcamento di campo, se non quello già impersonato da Shostakovich tra una malinconia leggera, superficiale e quasi piacevole (Stresa), e il suo negativo, ovvero una malinconia densa, profonda e viscerale (Isole).

Montorfano
Nella breve e riconciliante conclusione della Suite torna in maniera più esplicita un attore che era già apparso in Falsopiano, ovvero Montorfano. È una melodia estremamente semplice, che ho voluto rimanesse tale sia nell’orchestrazione che nella forma (non a caso è l’unico brano della Suite che non concede spazi improvvisativi) e che ha fatto nascere in me l’idea di un lavoro dedicato al mio territorio e ai laghi sin da quando l’ho composta, nell’ottobre del 2022, proprio passeggiando per Montorfano.

L’idea di inserire un quartetto d’archi nel concerto del 26 luglio è assolutamente originale. Il Quartetto Noûs, infatti, è conosciuto a livello internazionale soprattutto per aver inciso l’integrale dei Quartetti di Šostakovič, di cui quest’anno ricorrono i 50 anni dalla morte e del quale verrà eseguito il Quartetto per archi n. 4.

«Fra i meravigliosi 15 quartetti composti da Shostakovich, la mia attenzione per il primo tempo di questo concerto è ricaduta sul quarto, non certo uno dei più discussi né tanto meno più suonati. È d’altronde una composizione dalla storia e dal contesto molto travagliato, collocandosi in uno dei periodi più difficili e dolorosi della vita di Shostakovich, ovvero poco dopo la sua seconda denuncia ufficiale e conseguente censura delle sue opere imposta dal governo sovietico per formalismo.
Nel 1948 venne infatti destituito dai conservatori di Mosca e Leningrado e i suoi lavori furono banditi, portandolo a gravi difficoltà finanziarie. Per sopravvivere, compose musica per il cinema e cercò di conformarsi il più possibile al realismo socialista, ricorrendo spesso all’utilizzo di temi e musiche popolari; tra queste, Shostakovich mostrò un particolare interesse per quella ebraica, già presente nel suo Trio per pianoforte n. 2 (Op. 67, 1944). Mondo ebraico che però in quel periodo non attirava la simpatia di Stalin, che proprio in quegli anni emanò diversi provvedimenti antisemiti con lo scopo di allontanare il più gli ebrei sovietici dai centri di potere, vedendoli sempre più come una minaccia in quanto eccessivamente vicini agli Stati Uniti e al mondo occidentale in generale.
Nel corso del 1949 i rapporti tra Stalin e il compositore si ricucirono, tuttavia gli echi popolari ebraici presenti anche in questo quartetto (soprattutto nel movimento finale) continuavano a rappresentare un grosso rischio politico. Alla prima esecuzione nel 1950 per un pubblico ristretto di amici compositori e in presenza del capo della divisione musicale del Comitato per gli affari artistici Alexander Kholodilin, venne caldamente consigliato a Shostakovich di ibernare la composizione in attesa di tempi migliori, ovvero la morte di Stalin. La prima esecuzione risale infatti al 1953.

Il primo movimento (Allegretto in Re maggiore) evoca suoni esotici simili a cornamuse, con dissonanze che si risolvono in armonie più dolci. Il secondo movimento (Andantino in Fa minore) è un malinconico valzer, mentre il terzo (Allegretto in Do minore) è un moto perpetuo che anticipa il finale.
Il quarto movimento, vero cuore dell’opera, utilizza apertamente motivi ebraici e si trasforma in un’inquietante danse macabre. Il violino emette lamenti strazianti su un ritmo incalzante, evocando immagini di tragedia e sofferenza, come gli ebrei costretti a ballare sulle proprie fosse a Treblinka.

Trovo questa composizione una felice sintesi di tutti i mondi espressivi che hanno caratterizzato la poetica di Shostakovich, che annovero a pieno titolo tra i miei massimi riferimenti e che è stato per me un faro insieme a Maurice Ravel nella stesura della Suite. Mi sono sempre rispecchiato nella volontà di Shostakovich di esprimere sentimenti “pesanti” come la malinconia e il dolore con leggerezza, cercando di alleggerirli quanto meno per il pubblico rendendoli il più possibile volatili, come succede in particolare nei primi due movimenti. Altro tema più compositivo ma ugualmente importante per me, e che in un certo senso agisce come forza contraria rispetto a quella appena descritta, è il costante ancoraggio della melodia a solidi contrappesi armonici, in una connessione quasi “armolodica” che peraltro è cara anche a molti ambienti del jazz contemporaneo e che ho sempre cercato di difendere anche come mio tratto compositivo caratteristico.
L’approccio estremamente ritmico alla composizione è un altro grande tratto distintivo dell’estetica di Shostakovich, che non a caso lo ha connesso più volte in carriera al mondo del jazz (basti citare le Jazz Suites) e che qui trova spazio in maniera sublime nel terzo movimento.
Dello Shostakovich del quartetto No. 4 amo infine la drammaticità viscerale del quarto movimento, che irrompe quasi come se gli argini e le cortesie di cui si parlava sopra non reggessero più, come quella malinconia che non potrebbe autodefinirsi tale se non in contrapposizione a un momento di rabbia e di dolore feroce, intenso e acuto. Nella Suite mi rifaccio anche dal punto di vista formale a questo momento, proprio nella seconda parte del quinto movimento (Stresa/Isole)».
Simone Locarni

Si tratta quindi di un omaggio a un grande autore del ‘900, unito a una composizione originale del nuovo secolo, creando così un affascinante dialogo tra jazz e musica classica.

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